Canzone dell’assenza
E poi si perdono i ricordi ad uno ad uno, sai, e non basta appuntarli in nero come rondini a una nuvola di carta (un pensiero in cui indugi un attimo di troppo -il solco di un passaggio registrato tra le vertebre e la costola- e ha già mutato la sua forma per una nuova che tu vuoi imporgli).
Si perdono le linee nette che solcano i confini di ogni corpo -amato-, si rischia di credere che sfumando la distanza della pelle si possa appartenere all’Altro, impigliarsi nel calore acceso di promesse, il filo teso della carne a cui si (ac)cede, come al discorso silenzioso di trasparenze in codice del ragno la farfalla.
Si perdono i sospiri in certe notti che invece è giorno, quando bisbigli al tempo la tua ninna nanna e sussurri ad un orecchio sordo un nome, uno qualunque -perché l’unico che non pronunci si è inghiottito (in) una volta la tua voce-, e lo scomponi sbucciandolo di ogni lettera fino all’impronta d’alfabeto, con cui da piccola giocavi a scriverti sola -all’altezza del cuore- un chicco d’inchiostro.
Si perdono le foto, gli ombrelli (specialmente quelli rossi), le chiavi dei bauli con le bambole e i vestiti vecchi, le chiavi delle porte -chiuse- e della buca delle lettere, i capelli, il sonno, i sogni, gli sguardi eclissati agli angoli di una quaresima di attese, i libri, le illusioni che svaporano dallo spigolo del labbro, come l’alito freddo di un pesce o di un fantasma, le occasioni, i fazzoletti, le calze -spaiate in solitudini irrimediabili-, i treni, gli autobus, le parole smorte senza il battito vitale d’un gesto a riscaldarle, le penne, le sciarpe, si perdono, ti perdono, si perde, io perdo…
Quest’assenza declinata in oggetti inutili che mancano (al)l’appello, in un volto che mi specchia muto, nella meccanica teatrale di quando riproduco ad arte la logica imperfetta dell’addio, quest’assenza che misuro con la metrica puerile del mio (non) dire conclusivo -a cantilena-, è un demone che mi spilla il midollo tenero dell’allegria, che mi piega alla legge del bisogno, alla necessità di un limite che prendo a esistere nel cerchio chiuso di un abbraccio, quest’assenza è il canto triste dell’abbandono, una nenia che rintocca ad ogni strofa il verso della perdita, ancora, ancora, mancanza nostalgia, la negazione dell’anelito assoluto a un noi a un tutto a un per sempre, che sta altrove.
Potessi perdere questa paura di perdere che mi fa essere a metà, un’immagine ripiegata d’ombra su me stessa, potessi perdermi io, per essere me stessa per intero. Ti lascerei andare allora, sai, per (ri)trovarti senza accorgermene, dove mi aspetti dall’inizio.
Silvia Rosa